sabato 31 dicembre 2016

Le poesie di Rita Santini: Aria di Natale



Cari lettori, anche se è passato ormai qualche giorno dal Natale, vi propongo questa bella poesia che mi ha inviato Rita Santini e che coglie bene l'atmosfera di questi giorni di festa. Buona lettura e buone feste!


Aria di Natale

Luci abbaglianti, stelle cangianti,
sfavillanti fioriture, affascinano i passanti.
Come giochi esotici, mille lampadine
fosforescenti illuminano le strade,
le case, gli ambienti, gli alberi, i monumenti.
Un presepe, con cieli stellati e comete
e, al centro, un Santo Bambinello,
con Mamma, Papà, un bue,
una mucca, un asinello.
Ecco, è Natale, emozionante festa
attesa tutto l'anno. E' come un giardino
decorato da miriadi di luci
e adornato di colori radiosi che dà gioia
e, a noi cristiani, da sempre, è capace
di ricolmare il cuore di meraviglia e d'amore.



Rita Santini, borgotarese, ha pubblicato poesie su giornali e periodici locali dell'Emilia Romagna, come “L'Araldo della Madonna di San Marco”, il “Lunariu Burg'zan” e la “Voce del Taro”, per cui ha scritto anche molti racconti. Ha partecipato a mostre di poesia, come il “Natale ritrovato” del Seminario di Bedonia, e le sue poesie sono state pubblicate ogni anno sul libro dei partecipanti. Molti, inoltre, gli attestati di partecipazione ricevuti da periodici e concorsi di altre regioni d'Italia. In particolare si ricorda la pergamena ottenuta partecipando ad un concorso indetto dal giornale “Lo Scoglio” di Roccaporena di Cascia. Recentemente ha conseguito il terzo premio al 35° Concorso di poesia organizzato dalla parrocchia di San Bernardo degli Usberti di Parma.




venerdì 30 dicembre 2016

“La gentilezza” di Polly Samson, un romanzo che ha il respiro di un classico




Julian è uno studente di talento della facoltà di Inglese, con un futuro assicurato in ambito accademico. Julia è sposata, ma il suo matrimonio è in crisi, ormai da tempo. 
Il loro incontro segna l'inizio di una grande storia d'amore e la loro vita a Londra è felice, nonostante la differenza di età. La nascita di una figlia sembra il coronamento di un legame forte, e anche il nome scelto, Mira Eliana, pare un ottimo presagio: “Mira per il miracolo e la meraviglia della sua nascita (dal latino mirus, sorprendente). Il secondo nome gli era stato comunicato inaspettatamente da Julia il giorno in cui l'avevano registrata presso la Hornsey Town Hall. Eliana. Secondo il libro dei nomi aveva origini ebraiche con il significato di “data da Dio”, oppure greche con riferimento al sole”. La grave malattia della figlia, però, rappresenterà una sorta di spartiacque nella vita di Julian, e anche il sogno di riconquistare Firdaws, la sua adorata casa d'infanzia, rischierà di perdere senso.
Questi, in sintesi, alcuni elementi che caratterizzano la trama del pregevole libro di Polly Samson, “La Gentilezza”, recentemente pubblicato da Unorosso, marchio editoriale di Parallelo45 Edizioni. Polly Samson, londinese, è piuttosto nota al grande pubblico per essere la compagna di David Gilmour dei Pink Floyd, e per essere autrice dei testi di molte delle loro canzoni, in particolare degli album “The Division Bell” e “The Endless River”. Come scrittrice, ha esordito con la raccolta di racconti “Lying in bed”, proseguendo con il romanzo “Out of the picture”.
“La Gentilezza” (The Kindness) è il suo secondo romanzo, ed è un'opera ricca di risvolti e di sfaccettature. E' difficile persino assegnarla ad un genere preciso, visto che parlare di “romanzo rosa” sarebbe quantomeno limitativo per un testo così ricco di riferimenti culturali e letterari, che cita Milton, Yeats o i pittori pre-raffaeliti.
Analogamente, colpisce la perizia descrittiva di un'autrice che sa soffermarsi tanto sui profumi e sui colori della campagna inglese, quanto sui corridoi o i saloni di un ospedale, senza perdere la propria efficacia.
I personaggi, poi, sono molto ben delineati dal punto di vista psicologico, e denotano una profonda conoscenza dell'animo umano e di certe dinamiche che regolano i rapporti affettivi. Julian, Julia, Katie, Karl, presentano tutti, inoltre, aspetti misteriosi e risultano difficili da inquadrare in poche parole.
E' la complessità dell'essere umano, quella che emerge, e rende questo romanzo molto realistico. I tradimenti, le mezze verità, i desideri inespressi, i segreti di ogni personaggio sono trasfusi nelle pagine con la sapienza tipica di chi sa narrare.
Un libro a tratti difficile da seguire, in un continuo salto tra passato e presente, che richiede continua concentrazione e attenzione, ma è come una boccata d'ossigeno per chi ama leggere, perchè ha il respiro di certi grandi classici del passato.

Forse non è proprio l'ideale per chi è abituato a certi narratori di oggi, dallo stile semplice e lineare, ma è senza dubbio un testo di alto livello, con una qualità narrativa superiore alla media, ed è scritto molto bene. L'ottima traduzione di Daniela Di Falco conserva l'eleganza e la forza di quest'opera.

mercoledì 28 dicembre 2016

La mia prefazione al libro "Borgotaro, i simboli dell'appartenenza" di Claudio Previ





Nelle scorse settimane, Claudio Previ mi ha invitato a stendere una breve prefazione al suo libro "Borgotaro, i simboli dell'appartenenza". Il testo presenta un elenco dei cognomi storici del paese di Borgotaro, i relativi soprannomi, e molti aneddoti e curiosità legati al paese. 
Visto che il testo è di diffusione strettamente locale, vi riporto integralmente la mia prefazione, sperando che possa essere di vostro interesse.





E' un grande piacere, per me, scrivere questa breve prefazione al libro di Claudio Previ. Abbiamo bisogno, sempre di più, di persone che ci aiutino a salvare e a tramandare i riti, le abitudini, il dialetto del nostro paese. E' evidente a tutti che, con il passare degli anni, si corre seriamente il rischio di perdere una parte importante della nostra storia. Il trascorrere del tempo indebolisce i ricordi, la morte degli anziani ci priva dei veri depositari delle nostre tradizioni.
“Quando un anziano muore, è come una biblioteca che brucia”, recita un antico proverbio africano, e questo è ancora più vero nel nostro caso, dove non si parla della storia di signori o principi, di documenti contenuti negli archivi, che possono essere ricercati e studiati, ma della storia delle persone, degli usi e costumi di un paese e di un territorio.
Il nostro Borgo, nel giro di pochi decenni, è radicalmente cambiato. Sono sempre meno le persone che parlano e capiscono il dialetto, ancora meno quelli che si avventurano a leggerlo e scriverlo. Persino chi lo comprende e lo parla abitualmente usa termini sempre più italianizzati, ben diversi dal lemma originario. Anche i soprannomi dialettali, veri simboli di appartenenza a una comunità, rischiano di essere dimenticati o storpiati, e le nuove generazioni non li conoscono più, o li confondono. Eppure, proprio in essi sta il senso di appartenenza a una piccola-grande comunità, dove ognuno di noi è l'erede di qualcosa di più antico, punto di arrivo di una storia che si lega ai nostri nonni, ai nostri bisnonni.
Spesso, infatti, i soprannomi hanno radici antiche e, pur legandosi ad aspetti fisici, caratteriali o sociali di qualche antenato, sono ben presto passati a designare rami diversi della stessa famiglia. A mo' d'esempio, tanto per restare al mio caso, i Beccarelli possono essere Pin'tti o Cabaròti, e non era strano che qualche anziano mi chiedesse, fino a qualche tempo fa, a quale dei due rami appartenessi. Penso che sia accaduto a tutti, e tutti ci siamo interessati ad indagare presso i nostri genitori o i nostri nonni, fin dalla giovinezza, le origini e le ragioni del soprannome, senza spesso venirne a capo.
Ci sono poi soprannomi personali, che designano la singola persona, ed erano specchio della civiltà di allora, a volte un po' ironica e sarcastica, ma non per questo meno accogliente.
Claudio Previ ha abbinato i soprannomi ai cognomi, in modo molto chiaro, e possiamo trovare quei soprannomi che già conosciamo e ritrovarne altri che non ricordavamo, o che magari designavano un parente o un amico purtroppo scomparso. 
Un tuffo nel passato, per certi aspetti, ma anche un lascito alle nuove generazioni, che potranno recuperare parte delle proprie radici, ed evitare che tutto questo, un domani, venga disperso.
Nelle pagine successive è possibile fare il percorso inverso, partendo dai cognomi e trovando i soprannomi relativi. Di ogni cognome veniamo a sapere l'origine geografica e da quanto tempo risulta presente nei registri anagrafici comunali. Ogni tanto, l'elenco alfabetico puro viene interrotto dalla presentazione di un personaggio, designato, ovviamente, con il proprio soprannome, e di cui vengono presentate le gesta o le caratteristiche. Emergono così vividi, dalle pagine, che ci fanno spesso ritornare ad una Borgotaro che non c'è più, tanto diversa da quella di oggi. La bellezza di questi aneddoti e delle curiosità raccolte arricchiscono ulteriormente il volume.
E' la bellezza di sentirsi parte di una storia che ci appartiene, che trasuda da ogni via, da ogni palazzo di questo nostro Borgo di cui sentiamo di far parte.
Non c'è neppure bisogno di scomodare l'illustre storico Marc Bloch, che sosteneva l'importanza di quella che, a volte, in modo ingiusto, viene ritenuta un genere minore, ossia la “storia locale”. Ci accorgiamo ogni giorno, in modo autonomo, di quanto sia importante mantenere salda la nostra identità, e la ritroviamo anche leggendo pagine come queste, che colgono l'anima di un paese e di una comunità.
Un testo, in conclusione, che non deve mancare nella biblioteca di un vero burg'zan, e deve trovare il suo degno posto al fianco dei diversi autori che, nel corso degli anni, ci hanno aiutato a meglio comprendere la nostra storia. Un grande grazie a Claudio, e l'auspicio che questa sia solo la prima di una serie di pubblicazioni sulla storia e le tradizioni di Borgotaro.

venerdì 2 dicembre 2016

Dante Alighieri al tempo dei social, ne parlo su L'Espresso




Tanti sono i ricordi che ognuno di noi associa alla “Divina Commedia” e a Dante Alighieri. Quanti versi, ancora oggi, ci tornano in mente solo pensando a Paolo e Francesca, al Conte Ugolino o a Caronte...
Un personaggio, Dante, che fa parte del bagaglio di conoscenze di ogni italiano, anche di quelli meno acculturati. 
Non tutti sanno, però, che oggi Dante è anche un fenomeno del mondo "social", e che Twitter, Facebook, Instagram lo vedono protagonista. Ne parlo sul mio blog per L'Espresso. 
Spero che vi possa interessare, ecco il link per leggere il mio articolo sull'Espresso

A presto!

mercoledì 30 novembre 2016

Cosa penso di Robinson, nuovo inserto di Repubblica




Per i lettori di Repubblica, domenica scorsa c'è stata una gradevole sorpresa, ossia un inserto culturale tutto nuovo, dal nome emblematico: Robinson.
C'era un po' di attesa tra gli appassionati, perchè incuriosiva vedere quali sarebbero stati i contenuti e lo stile con cui venivano proposti. Qualcuno pensava già a fare il confronto con la "Lettura" del Corriere e giravano le prime indiscrezioni...
L'impressione che ne ho avuto io è stata senza dubbio positiva, e ne ho parlato su L'Espresso.
Ecco il link per leggere il mio post.

A presto!




venerdì 4 novembre 2016

Curiosità storiche: perchè il Colosseo si chiama così?




Lettore di Provincia si occupa spesso di Curiosità storiche o letterarie. Ci sembra un modo divertente di affrontare argomenti che, all'apparenza, possono sembrare noiosi ma, approfonditi, risultano ricchi di interesse. Tra queste pagine, così, abbiamo via via ospitato Attila e Federico Barbarossa, il lupo mannaro di Petronio, le barzellette di Leonardo, Paolo e Francesca e Miguel de Cervantes.
Oggi vi volevo parlare del Colosseo, in particolare delle ragioni del suo nome, che risultano curiose.
Tra i monumenti della Roma antica è senza dubbio uno dei più affascinanti, e deve la sua erezione agli imperatori della dinastia Flavia. Fatto iniziare da Vespasiano nel 72 d.c. e concluso da Tito nell'80 d.c., venne ulteriormente modificato durante il regno di Domiziano. Ai tempi d'oro era in grado di contenere dai 50.000 ai 75.000 spettatori, e aveva un'altezza di 52 metri. Usato per gli spettacoli dei gladiatori o per altre manifestazioni pubbliche, fu abbandonato dopo il VI secolo, diventando un'enorme cava a cielo aperto da cui trarre materiali da costruzione.
Fin qui, sono cose note a tutti, e le abbiamo richiamate solo brevemente. Curioso è, invece, indagare sulle ragioni del nome "Colosseo". Il nome originario era infatti quello di Anfiteatro Flavio, o più semplicemente Anfiteatro. Solo durante il Medioevo si prese l'abitudine di chiamarlo "Colosseo".
Alcuni sostengono che il nome deriverebbe dalla sua struttura colossale, specie in rapporto alle piccole case che, all'epoca, lo circondavano. Oppure potrebbe aver preso il nome dal colle su cui sorge, che in romano era definito "Collis Isei".
L'imperatore Nerone
Secondo una leggenda, il nome deriverebbe dalla formula ripetuta da antichi sacerdoti al termine delle loro cerimonie, ossia "Colis Eum?" (Adori Lui, cioè il Diavolo?). In questo caso il Colosseo sarebbe stato abitato nientemeno che da Demoni.
Altri sostengono che la ragione del nome sia più complessa ma più realistica. L'abitudine di chiamarlo così sarebbe nata dal fatto che il Colosseo era collocato nelle vicinanze del cosiddetto "Colosso di Nerone", una statua raffigurante questo imperatore che era di proporzioni gigantesche. Realizzata in bronzo dorato, fu progettata e costruita dallo scultore greco Zenodoro. Il gigante raffigurava l'imperatore Nerone (54-68 d.c.) che reggeva nella mano destra una sfera d'argento raffigurante, per alcuni, il globo terrestre, per altri la luna, e con la testa cinta da una corona di raggi, quasi fosse il Dio del Sole. La mano sinistra, invece, reggeva una spada in segno di dominio. 
Nel complesso, stando a quanto scritto da Plinio il vecchio, la struttura era alta 30 metri circa e appoggiata su un basamento di ulteriori 11 metri. Posta in origine nel vestibolo della Domus Aurea, residenza imperiale di Nerone, fu spostata al tempo dell'imperatore Adriano e, ancora nell'VIII secolo, si trovava nelle vicinanze del Colosseo.
Una ricostruzione del Colosso di Nerone
Oggi del Colosso resta solo il grande basamento, mentre la statua fece forse la fine di tanti manufatti antichi, venendo fusa per recuperare il bronzo. 
Nel linguaggio quotidiano dei romani, però, si era ormai diffusa l'espressione: andare "ad Colosseum eo", cioè andare dal Colosso. Visto che il Colosso era vicino all'Anfiteatro Flavio, questo ha preso il nome "Colosseo", a ricordo della statua che gli stava al fianco e il nome è rimasto, anche quando questa, ormai, non c'era più.

venerdì 28 ottobre 2016

Pascoli e Govoni: Due poesie per il giorno dei Santi




Chi legge abitualmente Lettore di Provincia è abituato al fatto che, in occasione di particolari ricorrenze dell'anno, ci piace proporre qualche poesia o qualche filastrocca a tema. 
Così ci è capitato di presentare filastrocche dedicate al Carnevale, oppure poesie dedicate all'Epifania. E' un modo di ricordare versi che abbiamo magari studiato a scuola, oppure di proporne di nuovi. Visto che la cosa generalmente riscuote l'interesse dei nostri lettori, oggi ho pensato di proporvi due testi dedicati alla festa di Ognissanti. Spero che li possiate apprezzare. Se volete, lasciate un commento: sarà gradito!



Novembre (Giovanni Pascoli)


Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
vuoto il cielo, e cavo al piè sonante sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile.
È l'estate, fredda, dei morti.


                        


            

 Ognissanti (Corrado Govoni)

  

Ognissanti! Domenica! La pioggia 

sembra che tessa de le funebri ghirlande... 

Sul marciapiede tra la noia roggia 
s'affretta una chiassosa squadra d'educande. 

Soffia il vento. Domenica! Ognissanti! 
giorno de gli ineffabili preparativi 
e dei pellegrinaggi ai camposanti 
coi cuscini di verdi e rossi semprevivi! 

Lo stellato del vecchio gelsomino 
odora nel testo dal fodero di vaio. 
Tra il fruscìo de le foglie, nel giardino 
bagnato (è il pomeriggio) ferve il passeraio. 

I vetri de la stanza a gli insistenti 
sbruffi raggrinzano i loro pomelli smorti; 
e le campane da tutti i conventi 
recitano l'ufficio a lutto per i morti. 






mercoledì 26 ottobre 2016

Zenith 666: uno spasso per gli amanti di Zagor





Il fumetto di Zagor Zenith 666 è in edicola ormai da un po' di tempo, ma solo ora mi sono deciso a scriverne la mia opinione sul blog. Il numero 666, oltre ad essere il numero diabolico per eccellenza, compare anche sul numero di targa del maggiolino di Dylan Dog.
Uscito in concomitanza con i festeggiamenti per il trentennale della serie di Dylan Dog, infatti, vuole essere un omaggio al creatore dell'indagatore dell'incubo, quel Tiziano Sclavi che ci ha consegnato pagine memorabili anche della saga di Zagor. 
Come non ricordare, soprattutto, la lunghissima saga di "Incubi", dove Zagor è assalito dal demone della follia e Hellingen è solo una delle componenti di una storia veramente epica, che sembra segnare la fine del mondo conosciuto, con la morte di alcuni dei protagonisti e un'atmosfera cupa e di forte inquietudine. Ma altri ancora sono i personaggi creati da Sclavi per Zagor, come Devil Mask, Lupo Solitario, e i protagonisti del mondo fatato di Golnor. 
Venendo allo Zenith 666 va detto che ha suscitato parecchie discussioni tra gli appassionati, che si sono divisi tra entusiasti e scettici. 
La mia impressione è, nel complesso, positiva. Si tratta di un numero divertente e ricco di citazioni, che non può che appassionare i lettori abituali di Zagor e, guarda caso, anche di Dylan Dog.
Accanto al ritorno di alcuni personaggi che abbiamo citato poco fa, infatti, troviamo un misterioso individuo incappucciato che sembra essere il Signore Nero di Golnor, ma che si rivelerà essere il Cattivo per antonomasia della serie di Dylan Dog. 
Ritroveremo, per strada, Digging Bill, tesori maledetti ed Elfi. Gli intermezzi comici citano "Horror Cico" e vedono il pancione amico di Zagor alle preso con il dispettoso elfo Panko o con una serie di zombi appena usciti da un cimitero, in una scena degna della mitica copertina del Dylan Dog numero 1. La sceneggiatura è di Luigi Mignacco, che gioca continuamente su questa ambiguità tra Zagor e Dylan, mentre Luigi Piccatto è il disegnatore che la ha illustrata. 
Un albo completamente a colori, nella tradizione degli anniversari bonelliani che, come detto, a me è piaciuto, anche se forse la storia meritava di essere sviluppata su due albi, e in certi passaggi sembra un po' "tirata via" e accelerata per restare nelle 98 pagine. Quest'ultimo, forse, è il punto debole. Un punto di forza sta nel continuo giocare con il lettore, che è chiamato a riconoscere passi e citazioni anche lontane nel tempo. Un fumetto per appassionati di lungo corso della saga zagoriana. A tratti difficile da seguire, forse, per i nuovi lettori. 
Qualcuno di voi lo ha letto? Cosa ne pensate?

domenica 23 ottobre 2016

Poesia in musica: Lucio Dalla - Caruso






Il primo articolo di questa nuova sezione, dedicato a Fabrizio De Andrè, ha raccolto un notevole successo. La canzone italiana è ricca di "poesie" in musica e crediamo che questa nuova sezione potrà continuare ancora a lungo, alternandosi chiaramente agli altri argomenti comunemente trattati nel blog. 
Oggi vi voglio parlare della canzone "Caruso" di Lucio Dalla. Come per De Andrè, anche Dalla non ha bisogno di presentazioni, e tutti conosciamo ed abbiamo cantato con piacere le sue canzoni. 
Siamo ancora tutti un po' scossi dalla sua morte, ma si sa che questi personaggi continuano a vivere nelle loro canzoni e sembra che siano sempre qui con noi.
Questa canzone, in particolare, sarebbe stata ispirata a Dalla dal soggiorno in un albergo di Sorrento, nella stessa camera dove diversi anni prima aveva riposato il famoso tenore Enrico Caruso. Erano gli ultimi giorni di vita del tenore, caratterizzati dalla passione per una giovane a cui dava lezioni di canto. Il testo si richiama alla tradizione della canzone napoletana ed è una vera poesia.


Caruso


Qui dove il mare luccica e tira forte il vento 
su una vecchia terrazza davanti al golfo di Surriento 
un uomo abbraccia una ragazza dopo che aveva pianto 
poi si schiarisce la voce e ricomincia il canto.

Te voglio bene assaje 
ma tanto, tanto bene sai 
è una catena ormai 
che scioglie il sangue dint'e vene sai.

Vide le luci in mezzo al mare 
pensò alle notti là in America 
ma erano solo le lampare e 
la bianca scia di un'elica 

sentì il dolore nella musica, si alzò dal pianoforte 
ma quando vide la luna uscire da una nuvola 
gli sembrò più dolce anche la morte 

guardò negli occhi la ragazza, 
quegli occhi verdi come il mare 
poi all'improvviso uscì una lacrima 
e lui credette di affogare.

Te voglio bene assaje 
ma tanto tanto bene sai 
è una catena ormai 
che scioglie il sangue dint'e vene sai. 

Potenza della lirica dove ogni dramma è un falso 
che con un po' di trucco e 
con la mimica puoi diventare un altro 
ma due occhi che ti guardano, così vicini e veri
ti fan scordare le parole, confondono i pensieri

così diventa tutto piccolo, anche le notti là in America 
ti volti e vedi la tua vita come la scia di un'elica

ma sì, è la vita che finisce ma lui non ci pensò poi tanto 
anzi si sentiva già felice e ricominciò il suo canto. 

Te voglio bene assaje ma tanto tanto bene sai
è una catena ormai che scioglie il sangue dint'e vene sai
Te voglio bene assaje ma tanto tanto bene sai
è una catena ormai che scioglie il sangue dint'e vene sai




venerdì 21 ottobre 2016

Poesia in musica: Fabrizio De Andrè - Amore che vieni, amore che vai






Come tutti sapete, Bob Dylan ha vinto il Premio Nobel per la letteratura 2016. Al di là delle polemiche sull'opportunità o meno di assegnare un premio così importante a un cantautore, certo è che la musica del '900 ci ha lasciato molti pezzi musicali che contengono vere e proprie poesie, degne di essere citate all'interno del genere. Se la poesia con la P maiuscola risulta, purtroppo, un genere in declino, visto che sono pochissimi oggi i lettori di poesia in Italia e non solo, non va sottovalutato il fenomeno dei cantautori, che hanno in parte sostituito nell'opinione pubblica i poeti tradizionali.
Quel desiderio di poesia che c'è ancora, senza dubbio, ha trovato lì il suo sfogo naturale. 
Voglio per questo iniziare una nuova rubrica del blog, Poesia in Musica. 

Troverete il testo della canzone e l'esecuzione del cantante. Ditemi cosa ne pensate. Sono, o non sono, vere poesie?
Visto che poi, ogni tanto, un po' di nazionalismo non fa male, cercherò di pescare tra i tanti pezzi di cantautori italiani che non hanno nulla da invidiare a Bob. Tutte canzoni famosissime, che di certo conoscete. Ma leggere i testi, così, come vere poesie, fa un certo effetto. Il primo pezzo che vi propongo è "Amore che vieni, amore che vai" di Fabrizio De Andrè.



Amore che vieni, amore che vai


Quei giorni perduti a rincorrere il vento 
a chiederci un bacio e volerne altri cento 
un giorno qualunque li ricorderai 
amore che fuggi da me tornerai 
un giorno qualunque li ricorderai 
amore che fuggi da me tornerai 

e tu che con gli occhi di un altro colore 
mi dici le stesse parole d'amore 
fra un mese fra un anno scordate le avrai 
amore che vieni da me fuggirai 
fra un mese fra un anno scordate le avrai 
amore che vieni da me fuggirai 

venuto dal sole o da spiagge gelate 
perduto in novembre o col vento d'estate 
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai 
amore che vieni, amore che vai 
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai 
amore che vieni, amore che vai. 










mercoledì 19 ottobre 2016

Da Genova a Romezzano, tra horror e magia, “Il viaggio di Francesco”





Nei giorni scorsi ho letto “Il viaggio di Francesco” di Daniele Stasi (Giovanelli edizioni). Un libro che vede come protagonista Francesco, un giovane che lavora presso la Compagnia Unica del porto di Genova, e che trascorre un'esistenza avara di affetti e di avventure. A sconvolgere la sua vita arriverà però, ben presto, un gruppo di straordinari amici. Insieme intraprenderanno un lungo viaggio per salvare il piccolo paese di Romezzano, nelle colline bedoniesi, da una mortale minaccia.
Daniele Stasi, 35 anni, vive a Genova e lavora presso il porto come “rallista”, così come il protagonista del libro. Prima di questo, che è il suo primo romanzo, ha scritto anche molte poesie. 
“Il viaggio di Francesco” è un libro ricco di tratti autobiografici, soprattutto nella prima parte, in cui l'autore riversa la sua esperienza di lavoratore al porto di Genova. Ad un certo punto, però, il romanzo decolla, anche perchè la storia cambia radicalmente. Irrompono in scena, infatti, con decisione, elementi propri del racconto horror, e sembra di assistere a scene tratte da un fumetto di Dylan Dog, di cui Stasi è un appassionato lettore. 
Si vedano passi come questo: “Con raccapriccio Francesco vide metà della testa del collega esplodere, inondando il parabrezza con pezzi di cranio e materiale cerebrale”. La storia decolla, dicevamo, e il protagonista si trova alle prese con le potenze del male, esseri indefiniti, da incubo, che stanno sconvolgendo la vita di un piccolo paese dell'appennino. Qui si toccano elementi che richiamano saghe come il Signore degli anelli o Harry Potter e l'atmosfera del romanzo vira verso il cupo e le tenebre. Oscure, inquietanti presenze popolano le pagine: “L'uomo, se così poteva essere definito, aveva un viso tanto magro da sembrare un teschio; [...] la bocca dell'essere era anch'essa costantemente spalancata, in un grido silenzioso di terrore, formando una voragine nera di paura e angoscia senza fine".
Un romanzo senza dubbio originale, che mescola la narrazione alla poesia, elemento quest'ultimo dal chiaro potere salvifico, così come i due cani Sara e Zar, che avranno un ruolo non marginale nell'economia della storia. Poi ci sono l'amore e l'odio, in continua lotta.
Sentimenti, questi, che hanno largo spazio nel romanzo, e che connotano in particolare il finale del libro, quando si passa da lettere traboccanti d'amore per la cagnolina Sara, a passi intrisi dell'odio più nero, laddove si ripercorrono le vicende del vero Cattivo della storia, che non esiterà a togliere la vita ai propri genitori.
Un libro che, anche senza raccontare troppo del finale, si conclude con qualche sorpresa. Come sempre, da parte mia, il piacere di trovare ottime storie anche tra gli autori emergenti. Alla prossima.






lunedì 10 ottobre 2016

Bill Gates in veste di influencer, ne parlo su L'Espresso




Chi segue un po' i social network saprà chi sono gli influencer, ossia personaggi che riescono a influenzare le tendenze popolari, in diversi settori, dalla moda alla musica alla cultura.
Con un seguito di migliaia, per non dire milioni di follower, riescono facilmente ad orientare le discussioni. Questo avviene anche in campo letterario, dove troviamo giornalisti, scrittori, o semplici lettori forti che la fanno da padroni, superando spesso i comuni critici letterari.
Negli ultimi tempi, anche Bill Gates, fondatore di Microsoft, si è calato in questo ruolo gestendo il suo blog Gates Notes.

Ne parlo sull'Espresso. Ecco il link all'articolo.





domenica 9 ottobre 2016

I grandi incipit della letteratura: "Il fu Mattia Pascal" di Luigi Pirandello






"Il fu Mattia Pascal" è il romanzo più famoso di Luigi Pirandello (1867-1936). Apparso a puntate sulla "Nuova Antologia", venne poi raccolto in volume nell'anno 1904. Narratore della vicenda è lo stesso Pascal, che riferisce i fatti dal proprio punto di vista. Come spesso accade in Pirandello, il protagonista è "uno, nessuno e centomila" e la sua figura varia e si confonde a seconda delle persone con cui entra in contatto. La storia è narrata sotto forma di un grande flashback, e si svolge tra Miragno e Roma, per quanto spesso i luoghi non risultino ben definiti. E' anche la storia di una "seconda possibilità", ossia l'occasione di cambiar vita, completamente, e ha sempre affascinato i lettori. Ecco l'incipit:






Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: — Io mi chiamo Mattia Pascal. — 
Grazie, caro. Questo lo so. — E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: — Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. 
Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo. 
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. 
È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. 
Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume. 
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete.


sabato 8 ottobre 2016

Curiosità letterarie: la gioventù avventurosa di Miguel de Cervantes




Tutti conoscono Don Chisciotte, eroe tragicomico, e il suo fido scudiero Sancho Panza, protagonisti straordinari di avventure sempre al confine tra realtà e follia. E' senza dubbio meno noto il fatto che l'autore del Don Chisciotte, Miguel de Cervantes, è stato a sua volta protagonista di esperienze di vita a dir poco rocambolesche e, senza dubbio, degne del suo personaggio. A soli 24 anni, infatti, lo troviamo imbarcato su una galea spagnola agli ordini di don Giovanni d'Austria, fratello minore del re Filippo II di Spagna, impegnato a partecipare a una delle battaglie epocali del periodo, la battaglia di Lepanto del 1571. Il giovane Miguel, di stirpe nobile, è un archibugiere, e si trova a bordo di una nave che fu coinvolta appieno dalla carneficina, tanto che furono ben 40 i morti all'interno dell'equipaggio, senza contare un centinaio di feriti. Anche lui rimase ferito gravemente alla mano e al braccio sinistro, che rimasero per sempre offesi, e che gli valsero il ben poco gradevole soprannome di “monco”.
Dopo la vittoria della flotta spagnola, fu nominato Capitano e partecipò ad ulteriori vicende belliche, ma ormai la vita militare lo aveva profondamente deluso. Durante i mesi di convalescenza in ospedale, infatti, Miguel aveva scoperto il mondo della letteratura e della poesia, e aveva scritto i primi componimenti. La passione letteraria lo colse in modo così repentino e deciso che, nel 1574, decise di abbandonare la carriera militare e di tornare a casa, per dedicarsi alla scrittura.
Le sue disavventure, però, non erano ancora finite. Mentre era in viaggio per ritornare in Spagna, infatti, la sua nave fu assalita da una flotta di pirati barbareschi, che lo catturarono e lo portarono ad Algeri, attivo centro di pirateria e commercio degli schiavi. La schiavitù di Cervantes durò ben 5 anni, nonostante i ripetuti tentativi di fuga del nostro, che non si rassegnò mai alla perdita della libertà. 
Solo grazie all'intervento della famiglia, che pagò un fortissimo riscatto, Miguel potè tornare in patria. Era il 1580, e aveva ormai 33 anni. 
Finalmente libero, intraprese la sua carriera di scrittore. Era stato lontano da casa, prima come soldato e poi come schiavo, per ben 11 anni. 
Il successo del suo Don Chisciotte o, per meglio dire, del “fantasioso nobiluomo don Chisciotte della Mancia”, lo avrà forse ripagato, almeno in parte, delle sofferenze subite.